Questo approfondimento è una sintesi dell’articolo di Alex Edmans (professore di Finanza alla London Business School), recentemente pubblicato sul Financial Analyst Journal:

Alex Edmans (2023), Applying Economics – not gut feeling – to ESG, FAJ 79:4, 16-29.

Tutti i media parlano di ESG (Environment, Social, Governance), ovvero la spinta richiesta a tutti noi – imprese e privati – nell’effettuare scelte che abbiano un impatto positivo verso l’ambiente, la società e il modo in cui operiamo e interagiamo.

L’autore propone di analizzare questo tema attraverso una lente economico-finanziaria, in modo da valutare nel modo più oggettivo possibile quando e come abbia senso questo tipo di investimento.

L’articolo si concretezza nell’individuazione di 10 miti da sfatare, per aiutare gli investitori a prendere decisioni senza farsi trascinare dall’emotività. Le conclusioni principali si basano su ricerca consolidata (ancorché non ancora esaustiva), in quanto il tema ESG esiste già da parecchi anni.

Mito 1: gli azionisti si focalizzano solo sul breve termine

[Risposta: no, il valore per l’azionista è un concetto di lungo termine]

Applicando concetti di finanza elementare, il valore di un’impresa (prezzo) è uguale al valore attuale di tutti i flussi di cassa futuri. Ne segue che per massimizzare il valore dell’impresa (obiettivo tipico dell’azionista) è necessario massimizzare i flussi di cassa futuri.

Esiste quindi completa compatibilità fra gli obiettivi degli azionisti e i progetti ESG, a patto che questi possano produrre flussi di cassa positivi nel tempo.

Mito 2: gli azionisti si preoccupano solamente del valore creato per loro stessi

[Risposta: no, gli azionisti hanno obiettivi aggiuntivi rispetto al solo profitto]

Gli azionisti si preoccupano anche degli altri portatori di interessi (stakeholders) per due motivi:

1) devono farlo, in quanto gli stakeholders sono tutelati in forza di un contratto (es. dipendenti, clienti) oppure di una legge (es. regolamentazione per tutela dell’ambiente);

2) sono incentivati a farlo, in modo da garantirsi un ambiente lavorativo e una società più piacevoli e produttivi.

Mito 3: il rischio di sostenibilità influenza il costo del capitale

[Risposta: no, il rischio di sostenibilità influisce sui flussi di cassa, abbassandoli]

Pur essendo un punto tecnico, è opportuno evidenziare che il rischio di sostenibilità non aumenta il costo del capitale (utilizzato al denominatore per scontare i flussi di cassa del ‘Mito 1’) bensì sui flussi (al numeratore), in quanto il tasso di sconto è influenzato solo dai rischi di mercato e non da eventi e rischi specifici dell’impresa (es. lo scandalo di Wolkswagen dove si sono falsificati i risultati dei test sulle emissioni non riguarda il mercato, portando alla riduzione dei flussi di cassa operativi di Wolkswagen).

Le analisi che, per comodità, vengono effettuate modificando il tasso di sconto (anziché i flussi i cassa) dovrebbe essere viste come poco attendibili, a meno che non si sia di fronte a un effetto sistemico (es. applicazione di una carbon tax a un intero settore).

Mito 4: le azioni sostenibili presentano rendimenti attesi più elevati

[Risposta: no, la sostenibilità potrebbe essere già prezzata. Una preferenza indiscriminata verso la sostenibilità potrebbe portare a conseguire rendimenti inferiori]

Come visto in precedenza, il prezzo di un’azione oggi è il valore attuale di tutti i flussi futuri. Ciò implica che il mercato può avere già prezzato un vantaggio competitivo basato sulla sostenibilità, con il risultato che chi compra oggi non potrà beneficiare di questo valore aggiunto. Un’azione può aggiungere valore solo nel momento in cui crea una ricchezza che non è già prezzata dal mercato. Da questo punto di vista, il fattore ESG può essere valutato alla stregua degli altri (es. value, growth) che, nel tempo, possono essere sovra o sotto stimati dal mercato.

Mito 5: il rischio climatico è un rischio di investimento

[Risposta: no, il rischio climatico rappresenta un fattore esogeno]

La confusione spesso deriva dal fatto che si tende a misurare il rischio climatico attraverso l’ammontare di emissioni prodotte. Nel momento in cui il governo dovesse imporre una tassa globale basata sulle emissioni questo rischio diventerebbe sistemico ma, in tutti gli altri casi, non lo è. Ne segue che non dovrebbe essere usato come unica misura per evitare investimenti in imprese carbon emitting. Inoltre, quantificare le emissioni non spiega il “rischio fisico” che un’impresa si trova ad affrontare quando cambia il clima (es. un’impressa immobiliare che sviluppa unità a ridosso del mare). Alla luce dei lenti progressi politici effettuati per combattere il rischio climatico si potrebbe dire che il “rischio fisico” è, in realtà, più importante di quello misurato attraverso le emissioni.

Mito 6: le metriche ESG misurano l’impatto sociale dell’impresa

[Risposta: no, l’impatto generale è diverso da quello parziale]

Le agenzie di rating ESG spesso valutano un’impresa senza tener conto delle implicazioni che le scelte ESG possono generare a livello aggregato. Per esempio, un’azienda potrebbe vendere alcuni impianti inquinanti alla concorrenza, diventando più verde per le agenzie di rating, senza tener però conto che chi compra gli impianti inquinanti continuerà a utilizzarli. Stessa considerazione si potrebbe effettuare per un Paese che punta ad avere solo auto elettriche, esportando quelle che usano combustibili fossili all’estero: il singolo Paese che esporta migliora il suo impatto ambientale ma, in aggregato, non sembra essere così). Il rating ESG non sembra quindi misurare l’impatto complessivo (sociale) di un’impresa nei confronti della società.

Mito 7: più ESG c’è, meglio è

[Risposta: no, anche ESG soffre di rendimenti incrementali decrescenti ed esistono barriere al cambiamento]

Come tutti gli investimenti, anche quelli in ESG devono fare i conti con la realtà, nel senso che c’è un livello ottimale oltre al quale i costi per aumentare ESG non sono giustificati dai ricavi addizionali. Esempio: se la diversità di genere è desiderabile, troppa diversità potrebbe portare a incomprensioni e difficoltà di comunicare all’interno dell’azienda.

Mito 8: coinvolgere maggiormente gli investitori (azionisti di minoranza) è sempre desiderabile

[Risposta: no, gli azionisti di minoranza possono essere poco competenti e/o portare a situazioni di stallo]

Un po’ come evidenziato nel punto precedente, c’è un livello ottimale di coinvolgimento degli investitori che può portare valore aggiunto ma affermare che sia sempre desiderabile è sbagliato, in quanto può portare a inefficienze e/o scelte sbagliate da parte dell’amministrazione (gli azionisti di minoranza possono avere conflitti di interessi con l’impresa, scarse competenze, visioni distorte su futuri sviluppi del business aziendale, …)

Mito 9: collegare il bonus degli amministratori a risultati ESG farà aumentare il rendimento ESG dell’impresa

[No, sbilanciare la remunerazione verso ESG porterà a trascurare altri parametri importanti per la gestione dell’impresa]

Questo tema è molto caldo a livello politico e, specialmente in Europa, sembra esserci una tendenza a voler vincolare le imprese a remunerare i propri amministratori in base al raggiungimento di determinati parametri ESG. Il problema principale di questo approccio consiste nel breve orizzonte temporale con il quale si vorrebbe sbilanciare la gestione di impresa, portando a risultati subottimali. Sembrerebbe invece più opportuno allungare l’orizzonte temporale, remunerando gli amministratori con le azioni stesse dell’impresa e forzandoli a detenerle per anni (5-7 anni). Un approccio di lungo termine è beneficiario sia per la performance complessiva dell’impresa, sia per quella ESG.

Mito 10: le carenze del mercato giustificano interventi regolatori

[Risposta: no, l’intervento pubblico è giustificabile solo quanto le carenze dei mercati superano quelle dettate dalle norme]

Il problema principale della regolamentazione è riconducibile a due fattispecie:

  • il Governo può solo disciplinare elementi misurabili, tralasciando altri aspetti che potrebbero essere apprezzabili (es. potrebbe forzare un aumento degli stipendi ma senza distinguere se si è in presenza di orari flessibili, lavoro a distanza, culture aziendali diverse).
  • le norme sono generalmente uniche per una varietà di imprese eterogenee (es. se un consiglio di amministrazione opera già in equilibrio, forzare maggiore diversità potrebbe generare problemi).

Va comunque notato che il cambiamento climatico è un buon esempio di carenze di mercato superiori a quelle legislative. In questo frangente risulta preferibile l’intervento pubblico rispetto al mercato, nonostante le carenze sopra citate.